Non mollare mai, le grandi cose richiedono tempo: questa è il pin che descrive perfettamente la giornata appena conclusa.

Tutto ebbe inizio tra fine ottobre/ metà dicembre quando, a seguito dalla mazzata ricevuta alla Venice Marathon e, alla vera propria umiliazione inflitta da un mio amico pallavolista che, in neanche nove mesi di preparazione, era riuscito ad ottenere un tempo migliore del mio.

A quel punto avrei due possibilità: mollare tutto e dedicarmi a gare più brevi, oppure accettare la sfida e rimettermi in gioco.

Dopo non poche perplessità, e corse svolte senza un vero proprio obiettivo, arrivò il giorno in cui presi l’unica decisione che un vero runner doveva prendere: iscrivermi subito ad una 42km, ma non quella di Venezia (non potevo aspettare ancora dieci mesi per rimettermi in gioco), bensì quella di Treviso prevista a fine marzo.

Questa volta decisi di avere un approccio completamente diverso a quello precedente, sicuramente molto più “low profile”: niente proclami da campagna politica sventolati ai quattro venti nei social, nessuna gara interlocutoria ed uscite di gruppo, basta con ripetute e con lunghi corsi alle 6.00 di mattina e, soprattutto, addio alla famigerata tabella di 15 settimane di Fulvio Massini (quella che, dopo una settimana, prevedeva già un lungo di 21km).

Come disse il campione olimpico Stefano Baldini, l’unico metodo per preparare una maratona è correre, correre, ed ancora correre ma non volevo neanche privarmi delle gioie che ancora riesco a provare facendo l’arbitro di calcio.

Pertanto decisi di prepararmi un piano di allenamento ad hoc: due uscite infrasettimanali, la consueta “doppietta” di partite del sabato pomeriggio e della domenica mattina, e una corsa della domenica pomeriggio.

Non nego che la fatica sia stata tanta (quante volte avrei preferito rimanere a casa al posto di affrontare le intemperie che questo inverno ci ha offerto) ma, essere in testa alla classifica dei chilometri percorsi, davanti ai “Mostri Sacri” del Presidente e del Bomba, mi dava la carica e la voglia di continuare su questo percorso.

Finalmente arrivò il giorno della gara, con tutte quelle operazioni che per routine, e per scaramanzia, devono essere svolte in rigorosa sequenza: viaggio macchina gli altri due ex #seguacidelfulvio Erik e Panda; ritrovo con gli altri compagni al ristorante Cavallino di Conche; pit-stop nel primo bagno chimico che avrei trovato nei pressi della partenza; foto di gruppo e il live da postare in facebook (questo sì è il vero motivo per cui mi iscrivo alle gare).

Anche se non era la mia prima gara, l’agitazione continua a farla da padrona nei minuti che precedono lo start: saranno sufficienti i soli due lunghi che ho corso? Sentirò dolore al ginocchio sinistro? A quale chilometro comparirà il famigerato muro? Avrò fatto bene a cambiare marca di scarpe ed integratori?

L’obiettivo cronometrico era di chiuderla in 3:45:00 (limando di ben 10 minuti la sciagurata esperienza veneziana) e, pertanto, avrei dovuto seguire i pacer aventi i palloncini di color giallo ma, conoscendo il mio motore, i primi due chilometri li avrei dovuti correre leggermente più lenti, controllando meticolosamente le pulsazioni per non rischiare di bruciare preziose energie ma, nonostante le buone intenzioni, continuavo a perdere terreno nei confronti di quelle “bronxe” di pacer che procedevano ad un ritmo medio più veloce di 5 secondi .

A quel punto capii che avrei dovuto impostare una gara in solitaria e, l’unico modo per rimanere concentrato sulla respirazione e sulla frequenza cardiaca, era di non ascoltare la mia amata musica commercial-reggaeton che da sempre mi aveva accompagnato nelle mie uscite.

All’ottavo chilometro riuscii ad agganciare il gruppo e, per non rischiare d’inciampare con chi mi precedeva, decisi di fare un leggero allungo per avere strada libera; tutto filò liscio fino a quando, all’undicesimo e al dodicesimo, si presentarono due cavalcavia che sovrastavano l’autostrada d’Alemagna: a quel punto mi ricomparvero gli incubi vissuti all’uscita del Parco San Giuliano di Mestre ma, fortunatamente, essendo trascorsa solamente un’ora, riuscissi a passare incolume da questo spavento.

Dopo essere transitati nei centri abitati di Carbonera e Silea, vedevo che riuscivo a viaggiare ad un ritmo più veloce di 10 secondi e, soprattutto, tenere sotto controllo le pulsazioni; un paio di chilometri più avanti, nella frazione di Cendon, era posto l’intertempo di metà gara, quello che ti permetteva di calcolare facilmente la proiezione al traguardo: il cronometro segnava un’ora e cinquanta.

Neanche il tempo di pensare che la Regina avrebbe “presentato il conto” da un momento all’altro, e vidi la prima “vittima” familiare (Francesco): in me pensai che se Atttela, con tutta la sua forza di volontà, aveva issato bandiera bianca dopo due ore, era inutile fare calcoli sull’ipotetico risultato al 42km.

I minuti e i chilometri passarono senza grossi intoppi e, in prossimità del “famigerato muro” del trentesimo chilometro, incontrai il Panda (Manuel Doria) che stava letteralmente camminando e, poco più avanti, nei pressi di Casier, un claudicante Forcola (Boscolo Davide): le “guardie” poste a protezione della Regina stavano letteralmente falcidiando la nostra truppa.

A quel punto, arrivato a neanche dieci chilometri dall’arrivo, l’unico modo per evitare tutti quei dardi lanciati dai “cavalieri” in difesa del castello, era di correre più veloce che potevo ed, effettivamente, questa strategia stava funzionando fino a quando…

… fino a quando al 37°km venni anch’io trafitto da una freccia: la gamba destra cominciava a dare segni di cedimento e, ad ogni passo che facevo, la falcata diventava sempre più pesante e il senso di impotenza mi svuotava le ultime energie rimaste.

Furono una ventina di minuti interminabili, ma non pensai neanche un attimo di arrendermi: non potevo, anzi, non dovevo rendere vani tutti i sacrifici compiuti negli ultimi tre mesi.

Come per magia, appena vidi il gonfiabile con il triangolino rosso, quello che indicava l’ultimo chilometro, quello che ti dava l’onore di sfilare nella passerella del centro storico di Treviso, non sentii più alcun dolore e, con il cuore colmo di felicità, e con uno scatto che mai e poi mai avrei pensato di riuscire a fare, mi apprestai a conquistare la mia seconda Regina.

L’emozione fu amplificata all’ennesima potenza quando controllai l’orologio che segnava 3:39:08: non solo avevo raggiunto avevo raggiunto l’obiettivo prefissato, bensì l’avevo abbassato di ben sei minuti (per non parlare dei 18 minuti limati rispetto a Venezia).

Con incredulità, e con quella sana gioia che solamente questi momenti possono offrire, mi diressi a ricevere la medaglia da finisher che tanto avevo bramato e desiderato, a patire da quel 3 Gennaio, data in cui decisi di iniziare questa avventura che si sarebbe conclusa dopo 689km (tanto ho dovuto correre per essere degno di ricevere questo riconoscimento).

Conoscendo il mio carattere, sono sicuro che questa sarà una felicità effimera, che durerà giusto il tempo di qualche giorno: già dal lunedì della settimana successiva , forse anche prima, sarò di nuovo in strada per rimettermi di nuovo in gioco nel tentativo di migliorarmi.

Non so quanto tempo dovrò ancora aspettare, e quanti chilometri dovrò ancora percorre per limare quei nove minuti ed otto secondi, ma una cosa è certa: finché non avrò realizzato questo mio sogno, continuerò a ricordare tutte le emozioni vissute in questa giornata.

#ihaveadream.

Andrea “Pocci” Tiozzo Fasiolo

25/03/2018, Treviso